L’ashtanga vinyasa prevede la pratica di serie di asana prefissati, un coinvolgimento che va oltre il piano fisico e il lavoro del tappetino e un impegno quotidiano basato sulla ripetizione costante di una sequenza che si muove e ci muove in avanti poco per volta.

L’apparenza ha un aspetto molto dissimile dal clichet di libertà universalmente accettato, tuttavia quando ci si alza di primo mattino, incedendo con passo da zombie verso il luogo solitario dove srotoliamo il tappetino, avvolti da quel senso di nostalgia per il letto, di dubbio sul da farsi, magari anche un po’ di freddo, e dopo un primo riscaldamento iniziamo a praticare, sentiamo il sangue scaldarsi, il respiro attivarsi e l’energia salire, crescere poco per volta, vinyasa dopo vinyasa, i bandha divenire più vigorosi  e planiamo fino alla sequenza finale fino a sdraiarci in savasana per poi risorgere come Lazzaro per osservare il mondo con occhi diversi possiamo sentirci liberati da catene ben più grosse, ben più profonde e vincolanti di quelle apparenti della scelta della sequenza di asana. Si potrebbe dire che magari avendo l’onere e l’onore di creare una propria routine si potrebbe rischiare di produrre una estensione del proprio ego, benchè in realtà una pratica ben ragionata e basata sull’ascolto del proprio corpo e dei suoi limiti sia un gran bel modo di praticare yoga, mentre limare il proprio ego sulle pareti ruvide delle serie prefissate ci aiuta a trovare la libertà dalle barriere più grandi.