Di recente sono stato ad un seminario di Ashtanga Vinyasa ad Amsterdam, un evento in cui gli organizzatori, davvero molto bravi e attenti, hanno radunato 5 insegnanti molto conosciuti in ambito internazionale per 4 giorni di pratica, conferenze e approfondimenti sull’ashtanga yoga.

Mi sono davvero gustato la splendida sensazione di praticare in un ambiente bello, partecipativo dove ho respirato tanta gioia e passione per la pratica da parte dei partecipanti, provenienti da 19 diversi Paesi e con un livello di esperienza splendidamente eterogeneo, dal vero e proprio neofita al praticante navigato, e ho molto gradito l’aiuto i tutti gli insegnanti , nessuno escluso. Con qualcuno ho avuto un maggiore feeling nell’adjustment e con qualcun altro ho avuto il piacere di uno scambio di sguardi sorridenti e qualche parola sullo yoga, ma davvero nella pratica non ho avuto mai sensazioni sgradevoli.

Si è però evidenziata dentro di me una reazione, o potrei meglio dire una reattività e riluttanza alle definizioni che ritengo sia un (ragionevole) effetto dello yoga e del suo effetto sulla maturazione di un adulto. Se posso dire che non amo essere definito uno “Yogi” posso certamente dire che sentirmi chiamare “Ashtangi” mi dia seriamente sui nervi. Tutte le volte che viene tracciato un confine all’interno del quale esista un “noi” diviene evidenzia ai miei occhi come ci sia anche un bel marcato “loro” che ne sta al di fuori e questo mi urta, o meglio, aldilà dell’urto immediato che mi impegno a non approfondire troppo e anzi a lasciar andare come qualunque emozione, mi rimane il disinteresse per la definizione e per il decalogo che normalmente una definizione e un’appartenenza si portano in dote.

Il rispetto dell’essere umano è un sentimento altissimo, il rispetto per i Maestri e per gli studenti altrettanto, e non possono non devono essere ridotti ad una mera osservanza di regole o limitazioni della percezione, della ricerca e dello studio che sono insiti se non già nell’uomo intelligente comunque del percorso di chi pratica Yoga (ancor più di chi lo insegna). Normalmente invece io percepisco una serie di irrigidimenti rispetto a questa libertà di ricerca o di elaborazione che sottendono all’idea del rispetto per  il lignaggio e per la tradizione che questo lignaggio rappresenta.

La parola Paramparà che letteralmente significa di bocca in bocca rappresenta un modo di tramandare le tradizioni che si può riscontrare in tutte le storie e culture nel mondo e che sicuramente è molto sentito in India, dove rappresenta un parametro di autenticità e rispettabilità del materiale culturale tramandato con questo metodo.

Nel mondo dell’Ashtanga Vinyasa la parola paramparà viene “praticamente” tradotta con il seguire pedissequamente gli insegnamenti e le modalità di Pattabhi Jois e di sua figlia Saraswati e nipote Sharat. Il rispetto per gli insegnamenti e l’importanza che Pattabhi Jois ha avuto nella divulgazione dello Yoga è fuori di dubbio e sono personalmente grato, pur non avendolo mai conosciuto di persona, a lui e a tutta la sua famiglia per l’abnegazione e la dedizione che profondono nello studio e nell’insegnamento dello Yoga. Ciononostante ritengo che l’atteggiamento di attaccamento alla persona e ad alcuni aspetti della modalità di insegnamento e alle conseguenze che queste modalità provocano sia tutt’altro che affine ai principi dello Yoga.

Sappiamo innanzi tutto che il materiale su cui si lavora in qualunque scuola di Ashtanga Vinyasa è un materiale di studio e lavoro e numerosi (e nobili) rimaneggiamenti di Sri T.Krishnamacharya che insieme ai suoi studenti tra cui sicuramente figura e spicca Sri K.Pattabhi Jois ha elaborato le conoscenze acquisite dai tanti suoi numerosi maestri forse primo fra tutti Ramamohan Bramacharya e confezionate ad hoc per renderle efficaci e fruibili per i giovani di Mysore ai quali insegnò sotto l’egida del Maharaja per quasi trent’anni. Questo non toglie in alcun modo valore né materiale né ai suoi insegnanti e divulgatori. C’è tuttavia, ed è importante non nascondersi dietro questi fili d’erba, differenza tra la scelta di riconoscere il valore (immenso) del lavoro fatto da questi maestri nel compilare e modificare un sistema affinché sia adatto ad un certo tipo di utenza e possibilmente renderlo scalabile per altre e dire che queste sequenze compaiono nei Veda, cosa assolutamente non vera, oppure cercare di dare autorevolezza ad un grande lavoro come questo semplicemente attribuendone l’origine ad un fantomatico libricino, lo “yoga kurunta” che nessuno pare aver mai visto, fu poi divorato dalle termiti e la cui paternità è attribuita a Vamana rsi, terzo avatar di Vishnu, che peraltro era un nano e quindi poco probabilmente interessato a sequenziare gli asana i serie progressive con relativi vinyasa! E’ chiaro che in un tessuto sociale e storico come l’india dell’inizio del secolo scorso, dove lo Yoga era un soggetto alieno per “scappati di casa” (cit. BKS Iyengar) fu necessario supportare con delle auctoritas storiche e mitologiche un lavoro che altrimenti sarebbe stato snobbato da dotti eruditi un po’ snob, allora come adesso, aggiungerei! Allo stesso modo è importante ricordare che lo straordinario Krishnamacharya rielaborò più volte il suo lavoro per adattarlo ai diversi tipi di praticanti, le diverse età e condizioni psicofisiche che questi praticanti (talvolta veri e propri pazienti) presentavano in virtù di una comprensione dei singoli ingredienti fatti di asana, vinyasa e pranayama, che gli permisero di cambiare la vita a migliaia di persone procurando loro un benessere perduto e un forte interesse per la natura spirituale dello Yoga, fatto di ricerca, studio pratica e curiosità!

Ed è proprio ‘elemento della curiosità ad essere potenzialmente penalizzato dalle rigidità dei dogmi derivanti da un eccessivo attaccamento al paramparà. Di per sè il paramparà garantisce un valore di autenticità al lavoro in un mondo in cui l’autenticità è un grande e raro valore di ciò che troviamo e in cui ci imbattiamo ma il rischio che questo si trasformi in un atteggiamento cieco di obbedienza basato sull’ipse dixit è reale, forte ed evidente negli effetti. A tale proposito suggerisco di osservare un po’ di gallerie fotografiche di seminari e corsi di ashtanga con particolare attenzione agli sguardi dei praticanti, specialmente quando questo sono “aggiustati” dagli insegnanti forti dell’autorizzazione del paramparà, salta immediatamente al’occhio come spesso quegli sguardi comunichino un’esaltazione dell’elemento del coraggio, un eroismo e un’eccitazione che hanno di per sè ben poco a che fare con quei bellissimi concetti di non attaccamento, equanimità, semplicità, verità, non violenza, purezza, disidentificazione con le sovrastrutture di cui sono permeati yama e niyama, per non parlare poi dei postulati di Stira e Sukha (stabilità/radicamento e comodità/let.”con aria”) che definiscono un asana.

Ben intesi la perfezione non è una qualità umana e se lo è è da ricercare nella totalità fatta di una somma di imperfezioni, quindi in ogni ambito, in ogni scelta, in ogni modalità sono da prevedere pregi e difetti, gioie e dolori. Intendo però mettere in evidenza che l’autenticità degli insegnamenti ricevuti deve essere ricercata nel valore intrinseco , tecnico, etico, spirituale del lavoro e nella sua comprensione fatta si di pratica ma anche di tanto studio, prova e ragionamento critico degli insegnamenti stessi, per questo la massima “99% pratica” non dovrebbe essere presa troppo sul serio specialmente perchè fu detta da una persona che studiò una quantità immensa di testi ed elaborò il suo lavoro con il coraggio e la curiosità di un ricercatore (infatti la sua scuola si chiama “Istituto di ricerche yogiche Patthabi Jois”) e non con la monolitica presunzione di possedere la verità ultima.

Il mio invito quindi vuol essere quello di ricordarci quale sia il vero e solo fine dello Yoga, indipendentemente dal fatto che il gusto della nostra mente di questo momento voglia definirlo “yin, ashtanga, hatha, flow, vinyasa,jnana, bhakti, kriya, kundalini etc..” perchè la modalità ha che fare e mostra i suoi effetti sugli strati del corpo e della mente sui quali gli elementi della natura hanno un effetto, quindi non su quell’essenza di fondo il riconoscimento e il raggiungimento della quale è il fine dello Yoga, e in quest’ottica rispettare il valore del paramparà per quello che è, cioè il dono prezioso di un lavoro che cambia ogni volta che qualche bravo studioso o ricercatore interviene per condividere le sue scoperte, un bene autentico che pur non avendo alcun effetto sulla natura divina dello scopo dello Yoga  e sul suo fine ultimo, può rendere invece il percorso più ricco di esperienze buone, utili e derivanti dalle scoperte di ricerche fatte da personaggi illustri e autorevoli, questo, che è tanto, e nulla di più.

In un altro post sulla Ashtavakra Gita chiarirò maggiormente questi punti sulla natura divina dello scopo dello yoga e su pregi e difetti del concetto di “metodo” citando aforismi di Patanjali che ne evidenziano gli effetti.