Nella precedente lezione abbiamo trattato il passaggio tra Vedismo e Hinduismo e abbiamo visto come nelle contaminazioni e cambiamenti intercorsi si sia passati da un pantheon di divinità che sottendono a manifestazioni naturali ad una trinità di tre manifestazioni (più le controparti femminili) di un solo grande Dio che è tutto, in tutto e infinito.

In questo incontro analizziamo più in profondità la figura di Shiva e in particolare il passaggio da eremita che ha rinunciato al mondo e alla vita sociale a padre di famiglia che abbraccia la vita sociale e sentimentale.

Per comprendere bene questo passaggio occorre introdurre alcuni personaggi, i quali chiariscono queste fasi e queste azioni e reazioni che Shiva attua e il loro senso.

Primo fra tutti viene Daksha, il patrono della antica Yagna, discendente di Brahma (o suo avatar) , patriarca della cultura vedica, lui ispirava il rispetto di tutti.
Un giorno fu invitato ad un raduno degli Dei. Non appena Daksha entrò, fiero e nobile, gli Dei si alzarono. Unirono le mani in segno di saluto a questo supremo patrono della Yagna. Daksha ne fu compiaciuto. Passò velocemente in rassegna con uno sguardo il consesso, accettando il saluto degli dei. Quindi la sua vista si posò su una figura solitaria seduta e la sua espressione si incupí. Guardò Shiva che continuava a rimanere seduto. Shiva non aveva alcuna intenzione di insultare Daksha, ma rimase seduto perchè era ignaro della posizione di superiorità attribuitagli. Non era rimasto né impressionato dall’arrivo del patriarca, né sprezzante. Era semplicemente del tutto indifferente alla cosa in sé.

Daksha tuttavia non era affatto divertito. Si aspettava da Shiva la stessa riverenza ricevuta dagli altri dei. In quel momento giurò che non avrebbe mai invitato Shiva ad alcuna Yagna, definendolo un outsider, non degno di essere pregato, elogiato o fatto omaggio di sacrifici.
Daksha è anche padre di Sati, incarnazione di Shakti, cioè alterego femminile di Shiva, emanazione del divino che richiama Shiva verso la vita e la sensorialità.

Sati rifiuta qualunque uomo le venga proposto dal padre perchè è devota al solo Shiva e solo di Shiva vuole essere consorte. Tuttavia Daksha proprio non può tollerare l’atteggiamento di Shiva che considera sprezzante, non può e non vuole avvallare che un simile disprezzo del ciclo della vita (bisogno desiderio, celebrazione dei rituali atti alla loro soddisfazione e conseguente premio) avvenga proprio sotto i suoi occhi così continua a celebrare Yagna e a non invitare Shiva anche quando questi diviene il consorte della figlia.

Daskha non è in grado di espandere la propria mente aldilà di questo ciclo e non riconosce il ben più profondo fuoco di Shiva, mentre il suo brucia sull’altare dello Yagna quello di Shiva brucia nella consapevolezza e lo spinge ad espandere la propria mente aldilà dei bisogni e della loro ciclicità. Agli occhi di Daksha Shiva è peggio degli Asura i quali convertendo la Rasa dalla sua forma organica a quella inorganica sono perlomeno parte del suo movimento ciclico, le azioni di Shiva lavorano a suo parere contro il ciclo della vita, e lo rendono un “distruttore”.

Lei, Sati non poteva tollerare un simile affronto, in realtà in cuor suo non desiderava nè il fanatismo del padre nè il totale distacco del marito, ma avrebbe anelato ad una via di mezzo in cui potesse ricevere l’amore del marito e l’affetto e approvazione del padre.
Così, sentendosi insultata prese fuoco, o secondo alcuni racconti si gettò nel fuoco della Yagna risvegliando così Shiva dalla sua meditazione sul monte Kailash in una forma distrutta dal dolore, feroce e inarrestabile: Virabhadra. Questa emanazione di Shiva comparve sulla scena della pira e decapitò Daskha e tutti i presenti alla celebrazione. Ciononostante Shiva continuò a piangere i resti di Sati, a soffrire e a tormentarsi.

Sati aveva portato Shiva in contatto con le sue emozioni e sentimenti, in sua compagnia provava amore, in sua assenza provava dolore e pena. La sua morte gli fece prendere consapevolezza della crudeltà delle regole sociali che spesso ignorano i sentimenti nella ricerca dell’ordine.

La “vendetta” operata ai danni di Daksha non aveva certo riportato in vita Sati e l’agonia emotiva di Shiva aveva trasformato il mondo in un luogo miserabile pieno di sofferenza.
A questo punto Vishnu si allarmò e temette per il bene del mondo e del cosmo. Egli capiva la rabbia di Shiva contro la natura della civilizzazione ma non poteva permettere a Shiva di distruggere la società in virtù del suo ruolo di protettore di essa e della sua equilibrata espansione. Alzando la mano nella quale teneva il suo disco che distrugge tutta la negatività si preparò a porre rimedio alla situazione: lanciando il disco distrusse i resti del corpo di Sati dividendoli in 108 pezzi (1=purnamidham questo infinito manifesto, 0=purnamadham quell’infinito non manifesto, 8=purnamheva vashesyate l’infinito che rimante togliendo l’infinità di manifestazioni). La forma fisica di Sati così non esisteva più e Shiva potè recuperare il controllo, resuscitò i deva e Daskha mettendo una testa di capra al posto della testa decapitata del patriarca Vedico, Daskha potè così completare la Yagna, dare potere ai Deva e compiere il ciclo della vita che riprese il suo movimento. Questa volta però fu fatta un’offerta anche a Shiva, il quale lasciò che i suoi cani la consumassero e poi si immerse nel suo mondo interiore nel quale riaccese il fuoco del tapas e distrusse i legami col mondo esterno.

Il mondo esiste perchè gli esseri senzienti lo percepiscono e rispondono ad esso. In ogni azione e reazione viene utilizzato del Rasa, ed ogni volta che questo succede il Rasa scorre, facendo fiorire il ciclo del Samsara e girare la ruota dell’esistenza.
Ma Shiva non reagisce più, non spende alcun Rasa e pertanto non lo fa scorrere, lo trattiene. Ha chiuso gli occhi, rivolto i suoi sensi verso l’interno, e rifiuta di percepire il mondo. Il mondo intorno a lui pertanto smette di esistere, non c’è ne fioritura ne interazione, il luogo in cui egli risiede è una Montagna di roccia e ghiaccio, gelida, senza vita.

Mentre il suo fuoco si agita internamente nel tapas, i Deva cercano il fuoco esterno, quello dello Yagna che da loro potere nella eterna lotta contro gli Asura per permettere al Rasa di fuoriuscire dalla terra e manifestarsi in forma organica.
Ma mentre i Deva hanno il potere di far rilasciare i frutti e tesori della terra, essi non hanno il potere di rigenerarli allorchè questi vengano consumati, quel potere resta nelle mani degli Asura che poi cercano di trattenere il Rasa sottoterra. Gli asura non condividono il Rasa, quindi pur detenendo il segreto della sua rigenerazione, quindi pur contribuendo al suo ciclo, lo trattengono nella forma non fruibile rendendo la terra sterile. Per questo gli Ari li consideravano come avari accaparratori e officiavano, tramite i Brahmini lo Yagna per dare il potere ai Deva di sconfiggerli.

Ogni comportamento che rappresenti un rifiuto di questa ciclicità o che ne ostacoli lo scorrimento fluido veniva dunque ritenuto un reato dagli antichi Ari del Vedismo. Come Daksha giudica Shiva colpevole di ostacolare il ciclo del Rasa non prendendovi parte o ad esempio come nella leggenda di Chandra che vede sempre Daksha nel ruolo di giudice inflessibile di questo reato contro il ciclo della vita. Dakhsa infatti aveva numerose figlie e ne diede 27 a Chandra affinchè potesse condividere il suo seme con tutte loro, tuttavia Chandra, si innamorò di Rohini, e desiderando stare solo con lei a tutti gli effetti rifiutò di condividere il suo seme con le altre 26 mogli. Infuriato per questo oltraggio, Daksha lo maledisse e Chandra iniziò a perdere luce, potere e forza vitale, finchè fu costretto a rifugiarsi dall’unico che poteva offrirgli una speranza di salvezza: Shiva.

Shiva lo ospito tra i suoi capelli dove Chandra, ormai ridotto ad uno spicchio piccolissimo iniziò a riprendere luce e forza fino a ritornare una luna piena. Così decise che avrebbe dedicato un giorno al mese ad ognuna delle sue 27 mogli, mentre si avvicinava a Rohini la sua forza sarebbe cresciuta e la sua luce sarebbe stata sempre più splendente, mentre allontanandosi da lei sarebbe diminuita, fino a divenire un piccolo spicchio di luna. Nel giorno della luna nuova non sarebbe stato con nessuna delle sue mogli, mentre la sera prima , avrebbe celebrato Shivaratri, rifugiandosi nei capelli di Shiva per recuperare l’energia necessaria a ritornare verso Rohini.

Questo “miracolo” dimostrò ai Deva che il Tapas di Shiva poteva rigenerare la vita, e che così come Shiva assorbiva il Rasa dal mondo esterno per accendere il suo fuoco interiore, il mondo esterno poteva sostenersi assorbendo energia da Shiva, che era ben più di un asceta , maestro di Yoga e Dio dei Dravidi, popolo delle foreste, era ben più di un alchimista, era l’incarnazione del Brahman invocato dallo Yagna. Adorare Shiva non era quindi diverso dal celebrare lo Yagna. Questa epifania causò l’abbandono, da parte della civiltà vedica del puro ritualismo in favore del teismo. Gli altari con braceri per il fuoco furono progressivamente abbandonati e furono eretti invece templi in onore di Shiva e delle manifestazioni di Brahman che come Shiva potevano produrre effetti benefici nella vita di tutti.

Gli Asura, impressionati dal grande potere di Shiva iniziarono ad imitarlo, per ottenere la stessa capacità di riportare in vita ciò che stava morendo, pertanto iniziarono a praticare il Tapasya. Ma mentre Shiva praticava il Tapasya per tagliare i condizionamenti della mente e gettare luce sulla vera natura delle cose, cercando il samadhi e la liberazione dal samsara, loro invece lo praticavano per ottenere le siddhi e conseguentemente manipolare il samsara, rimanendone infinitamente intrappolati.

Così si arriva a un punto chiave della storia che conduce Shiva da asceta a Shankara “uomo di famiglia”.
Un giorno l’Asura Taraka iniziò un Tapasya estremo per ottenere l’immortalità e poter sconfiggere i Deva. Così il divino si manifestò dinnanzi a lui in forma di Brahma e gli chiese quale premio volesse ottenere per la sua austerità. Taraka gli chiese l’immortalità ma Brahma rispose che questo dono non poteva essere dato a nessuno perchè tutti gli organismi prima o poi devono morire. Allora Taraka chiese di poter essere reso praticamente immortale, garantendogli che sarebbe morto solo per mano di un bambino che avesse solo sette giorni.
Brahma gli diede questo potere aggiungendo che quel bambino sarebbe potuto essere solo il figlio di Shiva.
Con questo potere la sua impresa di spodestare i deva e divenire governatore dei tre mondi fu molto semplice.
Il suo trionfo gettò il cosmo nel caos e la ricchezza naturale iniziò ad essere accaparrata e trattenuta dagli Asura, non più ridistribuita tra le creature viventi.
I deva sapevano che nessuno Yagna avrebbe potuto generare un bambino, e che per generare una simile creature il seme doveva essere dotato di eccezionale energia e forza, un seme così potente poteva essere prodotto solo da chi lo avesse trattenuto con continenza ascetica per lungo tempo, un tapasvin di qualità straordinarie. Shiva muoveva il suo seme verso l’alto per dare energia al suo tapas e al suo costante mantenimento dello stato di samadhi, era tempo di provocare la discesa del seme di Shiva verso il basso e di renderlo padre.
Così invocarono la Dea, colei che era già stata Sati un tempo e aveva provocato l’azione e il movimento di Shiva. In uno stato privo di coscienza lei era Yoganidra, senza forma e tutt’uno col tutto, mentre in uno stato di coscienza attiva diventava Yogamaya, ricca di forme e manifestazioni. Ella rinacque come Parvati, la figlia del dio delle montagne dell’Himalaya Himavan, gli stessi monti sui quali Shiva aveva scelto la sua dimora.
Dapprima cercò di attrarre l’attenzione di Shiva con la sua bellezza ma lui non fu minimamente disturbato nel suo stato di ritiro completo dei sensi verso l’interno e mantenne inalterato il suo Tapas. Presi dalla disperazione quindi i Deva mandarono Kandarpa, il dio dell’amore e della sensorialità a incantare Shiva. La presenza di Kandarpa riempì il luogo dove Shiva sedeva di romanticismo e quello che era prima un eremo roccioso e ghiacciato, per celebrare la sua presenza si abbellì: dalla terra e dalle rocce spuntarono e sbocciarono fiori che versarono polline e nettare ai suoi piedi, apparvero numerose ninfe che iniziarono a danzare e cantare e Kandarpa alzò il suo arco fatto di canna da zucchero con la corda fatta di api e scagliò cinque frecce floreali a Shiva.
Queste frecce toccarono i cinque sensi di Shiva il quale non fu affatto divertito dalla cosa, aprendo il terzo occhio incenerì all’istante tutto quanto, Kandarpa, le ninfe i fiori, tutto ciò che era forma e illusione per i sensi e che invece il terzo occhio vedeva per quello che era aldilà di maya: cenere. Shiva è Vibutinath cioè cosparge il suo corpo di cenere a rappresentare la consapevolezza della caducità della materia della forma e anche il suo contatto con l’anima, con l’essenza, di cui la cenere può essere rappresentazione, dal momento che è tutto ciò che rimane dopo che qualunque cosa materiale viene consumata dal fuoco.
Dopo aver distrutto il signore dell’indulgenza sensoriale, il signore della disciplina sensoriale riprese la sua meditazione.

Shiva non aveva alcun interesse nel ciclo del rinnovamento, anche quando Chandra prese rifugio tra i suoi capelli egli non fu ne disturbato ne distolto dalla sua beatitudine e meditazione, per lui l’infinita trasformazione della natura era solo foriera di frustrazione e dolore e gli ricordava della gioia che provava quando Sati sedeva sulle sue gambe e del terribile dolore che provò quando teneva tra le braccia le sue spoglie mortali. Per lui il mondo materiale era solo una fonte di delusione capace di distogliere la mente dal sat-chitta-ananda, per questo tagliò ogni connessione con esso, chiuse gli occhi e si ritirò nelle buie e fredde caverne riscaldandosi con il fuoco interiore del Tapas.

Era chiaro che Shiva non fosse un eremita qualunque che poteva essere sedotto da una ninfa e nemmeno dal dio dell’amore, era chiaro tanto ai Deva quanto a Parvati, la quale decise che non avrebbe sedotto Shiva come una ninfa ma diventando essa stessa un’eremita.
Uno dei fondamenti della metafisica Induista prevede che, dal momento che tutte le creature mortali e divine sono legate dal Karma, sia possibile cambiare il corso della vita introducendo un desiderio nel cosmo. Tale desiderio deve essere introdotto con spirito tenace ed inflessibile, finchè il cosmo non abbia scelta se non cedere alla testardaggine e soddisfarlo.

Questo è uno dei significati di hatha yoga, lo yoga della determinazione irremovibile, che veniva espressa attraverso atti di austerità e automortificazione, non solo mera meditazione e contemplazione. Talvolta significava digiunare, smettere di dormire, sedersi o camminare sul fuoco, dormire sui chiodi, o stare in piedi su un solo piede con le braccia alzate fino alla soddisfazione del desiderio espresso.

Le azioni ascetiche di Parvati sono diverse da quelle di Shiva. La meditazione di Shiva è un’espressione della sua indifferenza al mondo materiale e al ciclo della vita naturale, le azioni di Parvati invece sono un’espressione della sua determinazione ad avere quello che vuole. Lui accende il suo fuoco interiore, capace di bruciare le distrazioni e gli stimoli materiali, lei accumula energia per forzare un evento ad accadere. Lei non stimola i sensi di Shiva compie un’azione che richiede la sua attenzione, che crea uno stimolo spirituale al quale Shiva non può non rispondere. Shiva aprì gli occhi davanti a tanta dedizione e determinazione e ammonì Parvati che la vita con un eremita non sarebbe affatto stata come quella nel palazzo reale del padre e le suggerì di sposare un principe o un Deva, qualcuno che fosse giovane, bello e virile. Ma Parvati non volle sentire ragione, le sue intenzioni erano limpide e la sua determinazione dura come il diamante. Infine Shiva promise di sposarla secondo tradizione, quindi almeno per le nozze accettò di compiacere le aspettative della famiglia di Parvati e acconsentì a farsi vestire e preparare dai Deva. Il risultato fu un’aspetto talmente meraviglioso che gli fu attribuito l’appellativo di Sundareshwara, signore della bellezza e Mena, madre di Parvati che alla prima vista di Shiva era scappata inorridita, acconsentì infine quasi gelosamente a dare sua figlia in sposa a un Dio di tale irresistibile bellezza. Alla presenza di tutti gli dei, nella città di Kashi, ora Benares o Varanasi, con un matrimonio celebrato dallo stesso Brahma, Shiva e Parvati scambiarono le ghirlande e divennero marito e moglie, evento tutt’ora celebrato nel giorno di Maha Shivaratri.
I deva avevano quasi raggiunto il loro scopo ma sapevano che per poter avere il guerriero che avrebbe sconfitto Taraka questi avrebbe dovuto essere un essere speciale, senza età in modo tale che a sette giorni di vita avrebbe potuto combattere, quindi non doveva essere influenzato dal ciclo del samsara. Per ottenere questa eccezione alla natura, decisero che il seme Shiva, che era pura energia che scaturiva dal suo tapas, non doveva mescolarsi col seme rosso di Parvati ma essere trasformato in essere vivente dai Deva stessi. Così decisero di interrompere il rapporto sessuale di Shiva e Parvati, lei imbarazzata si ritirò per coprirsi e il seme di Shiva fuoriuscì dal suo pene. Agni, il dio del fuoco lo prese nelle sue fiamme ma il seme irradiava così tanta energia che Agni non potè contenerlo così lo diede a Vayu, dio del vento il quale a sua volta fallì nel tentativo di contenere tanta energia e per raffreddare il seme lo versò nelle acque del Gange. Il fiume iniziò a ribollire tanta era l’energia del seme di Shiva. Sei donne della foresta, le Krittikas, mogli dei sette saggi del cielo (i sapta rsi) che stavano facendo il bagno nel Gange rimasero incinte all’istante e i loro mariti, le giudicarono impure. Loro per la vergogna decisero di liberare i loro uteri dai feti lasciandoli in Saravana, la foresta di canne, ma appena questi toccarono terra, la foresta si incendiò e LORO si unirono in una sola creature con sei teste. Le krittikas vollero uccidere quel bambino mostruoso ma non appena gli si avvicinarono i loro seni iniziarono a spruzzare latte, perchè il loro istinto materno prevalse rispetto alle loro intenzioni. Così nutrirono il bambino e lo chiamarono Kartikeya, figlio delle Krittikas. Questo bambino nato dal seme di Shiva estratto da Parvati, incubato da Agni, Vayu, Gange, Saravana e allattato dalle Krittikas fu anche chiamato Skanda. Quando Skanda ebbe sei giorni, nel settimo giorno della sua vita fu pronto per impugnare una lancia e guidare i Deva in battaglia contro Taraka, e a seguito di una feroce battaglia trionfò sull’Asura.

Sconfiggendo Taraka, Skanda aveva aiutato i Deva a ristabilire il ciclo del Rasa e quindi indirettamente, tramite Skanda, Shiva prese parte nelle vicende del mondo materiale. Ciononostante Parvati non era affatto soddisfatta. Pur avendo reso un servizio eccezionale al mondo, questo figlio di Shiva non rappresentava la sua scelta di prendere parte al mondo e diventare padre di famiglia, dal momento che Skanda non era cresciuto nell’utero di Parvati ne era stato allattato da lei. Lei voleva che lui fosse davvero padre di un figlio e per suo tramite contribuisse al funzionamento del mondo.

Shiva però si rifiutò e lei esasperata decise di creare un bambino con della pasta di curcuma e lo chiamò Vinyaka perchè era nato senza l’intervento di un uomo. Parvati gli chiese di fare la guardia alla porta di casa mentre lei faceva il bagno e di non far entrare nessuno. Così Vinyaka senza esitazioni non permise a nessuno di entrare, nemmeno a Shiva e quando questi insistette decise di aggredirlo. Shiva che non conosceva l’identità di questo aggressore si difese dai suoi attacchi e lo decapitò col suo tridente.

Quando Parvati lo venne a sapere fu inconsolabile nel suo dolore e minacciò di trasformarsi da Gauri, la dea che da la vita, in Kali, la feroce e inarrestabile dea che toglie la vita se suo figlio non fosse stato resuscitato all’istante.
Shiva pertanto ordinò ai suoi seguaci , i Ganas, di portargli la testa del primo essere vivente che avessero incontrato. Loro gli portarono la testa di un elefante che Shiva pose sul corpo decapitato del figlio di Parvati e lo resuscitò. Ridandogli la vita Shiva divenne il padre del ragazzo e riconobbe la sua paternità dandogli il nome Ganapati o Ganesha, signore dei Ganas.

Di fronte alla furia di Parvati Shiva è costretto a reagire con un’azione. Quando resuscita la creazione della moglie e lo nomina signore dei suoi seguaci, diviene consapevolmente suo padre e in questo modo prende parte nel mondo come Shankara, marito e padre di famiglia.

Ci sono tantissimi aneddoti che raccontano il continuo altalenarsi degli atteggiamenti di Shiva che è pur sempre riluttante ad abbracciare pienamente questo ruolo e di Parvati che lo mette nelle condizioni di fare, agire e in questo modo partecipare alla vita con tutti i rischi che questo comporta. Il loro rapporto, che può essere visto come un amplesso senza fine, in una visione metaforica del necessario incontro tra maschile e femminile per la continuazione della vita, rappresenta l’eterna lotta tra il nostro mondo interiore e il mondo esterno, il nostro desiderio di essere Shiva e ritirarci da esso o il nostro desiderio di essere Shankara e tuffarci in esso. Questo è anche il significato del simbolo del Linga. C’è Shanti, Shanti Shanti, pace con noi stessi, col mondo e con ogni cosa e creature intorno, quando il ritmo di questo rapporto è equilibrato, quando nessuno dei due aspetti domina l’altro. Lo scopo dello Yoga, che sia Hatha, Gyana, Bhakti o Karma, è di sciogliere la consapevolezza dai vincoli e stabilire armonia col mondo materiale cosicchè si possa fare esperienza dell’eterno principio della vita, sanatana dharma:

“Il divino dentro di te è Dio,
Il divino intorno a te è Dea,
senza l’uno non può esserci l’altro,
nella loro scoperta risiede la saggezza,
nella loro unione armoniosa risiede la beatitudine eterna”.

(estratto, tradotto e in alcune parti ispirato da “Shiva to Shankara” giving form to the formless di Devdutt Pattanaik)