Lo yoga così come ce lo presenta Patanjali è una scienza che indaga l’interiorità umana, la sonda ed elaborandone i meccanismi aiuta il praticante a prenderne il controllo.

Illustrata così la metodologia dello Yoga potrebbe ricordare molto la psicologia moderna, o suggerirne un legame e una connessione quasi ad essere l’una per così dire la “versione” moderna dell’altra. In realtà non solo ritengo che  il sutra di Patanjali non necessiti di una versione moderna in quanto opera fuori dal tempo, ma soprattutto trovo che ci sia una differenza di fondo che non va assolutamente sottovalutata, cioè il fatto che la psicologia moderna è finalizzata a liberare l’ego dagli ostacoli o freni che ne inibiscono il successo sociale, in pratica si occupa di curare l’ego affinché possa trovare una sua posizione soddisfacente nella società, mentre lo yoga si occupa di distruggere l’ego.

Quintessenziali sono gli aforismi 9, 10 e 11 del Kaivalya Pada:

4.9 Jati desha kala vyavanitanam api anantaryamsmriti samskarayor ekarupa tvat

“ Ricordi impressioni inconsce mantengono vivo il rapporto causa effetto anche in luoghi e tempi diversi”

4.10 Tasam anaditvam cha ashisho nitya tvat

“ Desideri e impressioni sono spesso ancestrali e senza un preciso inizio”

4.11 Hetu phala asraya alambanaih samgrihi tatvat esam abhave tad abhavah

“ Ma essendo alimentati dal senso di attaccamento dell’ego all’attenuarsi di questo anch’essi sbiadiscono”

Rendono chiaro tutto il senso dell’opera e il senso stesso del “fare yoga”. Quindi direi che qualora si condividesse questa base di partenza , lo strumento poi diventerebbe ininfluente, solitamente i sentieri partono da punti diversi e si articolano in modo diverso ma conducono tutti inevitabilmente alla stessa vetta, se raggiungere quella vetta è il loro scopo. Analizzare la mente, il suo funzionamento e i suoi vicoli ciechi, ostacoli, trucchi e illusioni è un’attività potenzialmente complessa, ma Patanjali traccia due argini per contenere il lavoro del praticante dicendo che il controllo si ottiene con “pratica e non attaccamento ” (1,12  abhyasa vairagyabhyam tannirodhah) . Questo aforisma è uno strumento molto potente e a mio parere dovrebbe essere preso con la cautela con sui si maneggerebbe un’arma a doppio taglio. Immaginiamo ad esempio che la pratica ci aiuti ad affrontare, per risolverla, una dipendenza, in tal caso la pratica ci darà forze ed energia nuove, e creerà i presupposti per un cambiamento, poi dovremo esercitare la dispicplina del non attaccamento per non tornare alle vecchie abitudini nottetempo.

Ritengo che sia molto utile citare le abitudini perché Patanjali insiste sullo sviluppo della consapevolezza e sulla necessità di smettere di identificarsi coi prodotti della mente e coltivare l’osservatore puro, quella scintilla vitale che vede, in tale prospettiva, le abitudini non si divideranno più in buone abitudini e cattive abitudini, in quanto tali saranno sempre e solo cattive, perché sono un segnale del prevalere della componente inconscia sulla consapevolezza e sul “veggente”.

C’è poi una seconda prospettiva secondo la quale possiamo leggere questo aforisma: pratichiamo e conseguentemente ne otteniamo dei risultati (percorso illustrato nel tratto sadhana pada-vibhuti pada) e poi ci attacchiamo alla pratica e ai suoi risultati (3.38 Te samadhau upasargah vyutthane siddhayah “Questi poteri che nel quotidiano si rivelano straordinariamente utili sono tutti impedimenti al samadhi” e ancora 3.51 Tadvairagyat api dosabijaksaye kaivalyam “Distaccandosi anche da queste facoltà e dalla bramosia di conoscere si ottiene la vera libertà.” – 3.52 Sthanyupanimantrane sangasmayakaranam punaranista prasangat “Aspettarsi rispetto e ammirazione per queste conoscenza acquisite ha le stesse conseguenze degli ostacoli dello yoga già illustrati in precedenza.”) pertanto il non attaccamento diventa una disciplina antidisciplina, cioè un antidoto ai veleni della disciplina stessa, che sono poi i suoi frutti ma non il suo scopo!

E chi ci dice allora quale sia la giusta prospettiva e quando utilizzarla? Un coro di voci probabilmente dirà “Il Guru”  e forse per un breve periodo questo potrebbe anche essere sensato, ma l’insegnante per primo dovrebbe sincerarsi che nello studente stia nascendo la consapevolezza e la scintilla di auto-osservazione che lo rendono indipendente in questo genere di decisioni e prese di coscienza, perchè solo il diretto interessato può realmente sapere cosa ci sia nella sua mente e dove sia necessario intervenire. All’inizio, presi dall’entusiasmo e dal marasma di emozioni e pensieri contrastanti una guida effettivamente può servire a rimuovere qualche ostacolo e a rassicurare, ma tale rassicurazione, a mio parere, diventa esattamente come i poteri descritti nel vibhuti pada, un ennesimo klesha, un ennesimo ostacolo al samadhi e alla crescita. Occorre davvero ricordarsi che si cammina su un filo, o anche sul filo di un rasoio, e che la bellezza sta proprio nel rilassare tutto ciò che non ci serve per rimanere in equilibrio su questo filo anzichè appendersi a qualcuno per dimenticarsi dell’esistenza del rasoio.