L’ashtavakra Gita raccoglie i dialoghi avvenuti tra re Janaka (il padre di Sita, moglie di Re Ram e incarnazione di Lakshmi) e il saggio Ashtavakra.
Ashtavakra era già consapevole della profonda verità della vita mentre era nell’utero materno: sentendo il padre recitare a memoria i Veda e cercare di salmodiarne la “corretta intonazione” lui si contorceva e gli urlava da dentro il ventre materno “basta smettila di recitare a memoria come un pappagallo, stai raccogliendo la polvere della conoscenza tralasciandone l’essenza, non è imparando a memoria versi e intonazione che cogli l’essenza dei veda ma comprendendone il senso profondo, il messaggio di espansione della mente, di realizzazione del Sè, della presa di coscienza che siamo pura consapevolezza, che il divino alberga già in noi!”. Così il padre offeso dalle parole del figlio lo maledisse ed egli nacque in Ashtavakra (lett. “otto pieghe”) un bambino deformato in otto punti del suo corpo. Arrivato alla corte di Re Janaka dove si radunavano tutti i saggi dell’India per l’Upanishad (il grande raduno che Janaka fece per cercare la verità e la realizzazione spirituale) fu deriso per la sua deformità e lui a sua volte derise i grandi dotti presenti chiamandoli “calzolai”. Janaka fu colpito dalla reazione di Ashtavakra e gli chiese di spiagarsi. Ashtavakra rispose che i presenti lo giudicavano dal suo involucro, valutavano la sua “Pelle” come il calzolaio valuta una pelle buona e una no buona per fare delle scarpe e che nessuno dei presenti aveva compreso la natura del divino. Così Janaka decise di seguire gli insegnamenti di Ashtavakra, divenendo suo discepolo e i dialoghi sono appunto raccolti nella Ashtavakra Gita (o Samhita).
Il primo sutra dice proprio “Tu sei colui che osserva ogni cosa,colui che in realtà è sempre libero. La tua schiavitù sta nel fatto che vedi l’altro come osservatore e non vedi te stesso”.
Questa frase mette in luce come nella nostra natura non ci sia alcunchè da cambiare, da modificare, da evolvere o far crescere, che fondamentalmente non ci sia bisogno di alcuna pratica, alcun cambiamento, siamo già tutto quello che serve e basta per realizzare il divino, per essere felici e beati. La nostra schiavitù origina proprio dal fare, Janaka chiede ad Ashtavakra ” cosa devo fare per realizzare il mio sè superiore?” e il saggio rispondendo alla persona anzichè alla domanda dice ” non c’è nulla da fare, finchè sei quello che agisce non può esserci alcuna realizzazione, il punto sta proprio nel non fare, sei quello che osserva, allora la beatitudine sorge immediatamente” e ancora ” non sei un brahmano, nè appartieni ad un’altra casta; non sei in uno dei quattro stadi della vita. Se ai suoi tempi ci fossero state le religioni che ci sono oggi o i partiti politici avrebbe aggiunto ” non sei un musulmano nè un hindu ne un cristiano o ebreo, non sei un partito ne un suo seguace. “Privo di attaccamenti e senza forma, tu sei il testimone dell’universo intero. Conosci questa realtà e sii felice!” . Probabilmente se parlasse ad un praticante di Yoga gli direbbe “non fa alcuna differenza che tu faccia un vinyasa o due per posizione, che tu faccia navasana prima di aver padroneggiato Marichyasana D… privo di attaccamenti e senza forma, sei il testimone dell’universo intero, conosci questa realtà e sii felice!”.
Chiaramente tutto ciò che facciamo noi, quando spinti da un desiderio, un qualunque desiderio, lo facciamo proiettandoci nel futuro, desideriamo ora qualcosa che vogliamo avere nel futuro, fosse anche entro qualche istante, ma ogni volta che desideriamo siamo proiettati in avanti, quindi non siamo nel presente, nel qui e ora , cioè nell’unica realtà che esiste, dove si può manifestare il divino che è in noi, dove può realmente avvenire la realizzazione del fine dello Yoga! Pratichiamo per essere nel presente ma nell’idea stessa di praticare è insita la logica del percorso, del cambiamento, della necessità di fare qualcosa per avere qualcosa in cambio, per ottenere un risultato.
Ashtavakra evidenzia che certamente la vita dell’uomo è fatta di percorsi, di cambiamenti che ci portano da un punto A ad un punto B , fatti di tempo, dedizione e intensità, ma che la realizzazione del divino avviene adesso , qui e ora, nel momento in cui si smette di fare di smette di anelare al dopo e all’altro da sè e si riconosce invece la natura divina del sè. un discorso come questo chiaramente non è strumentalizzabile e asservibile ad alcun dogma, come invece può esserlo un ben più politico testo come la BaghavadGita, per dirla tutta, forse nessuno erigerebbe un tempio in onore di Ashtavakra, chi mai lo proclamerebbe come Maestro quando fondamentalmente rinnega ogni metodo, percorso, lignaggio e appartenenza!
Forse è proprio questo che mi folgora, che mi colpisce in profondità del suo messaggio, non si può fondare una religione, un profilo di appartenenza (e di conseguenza un’esclusività e un’esclusione) sul messaggio di Ashtavakra e pertanto mi giunge all’orecchio come qualcosa di vero, puro, molto interessante. Inoltre posso confermare con la mia esperienza che quello che Ashtavakra sostiene sull’osservatore e sulla realizzazione sia vero, una volta scoperto l’osservatore e la sua natura beata, questa consapevolezza rimane, realizzando in qualunque momento un particolare stato di grazia anche nei momenti bui, e relativizzando l’importanza di tutto, ma proprio tutto ciò a cui attribuiamo importanza!
Riportando il discorso alla pratica dello Yoga questo potrebbe comportare una crisi, un problema di fondo relativamente a tutti quei dettagli tecnici e teorico pratici a cui normalmente attribuiamo tanto valore, allineamenti, respirazione, concatenazioni e sequenze, vinyasa, tutto ciò che riguarda i metodi che seguiamo e i parametri ad essi propri. Invece io ritengo che questa consapevolezza comporti una straordinaria opportunità per mettere in pratica l’insegnamento del saggio Vasistha sul dharma “Fai ogni cosa come se facesse un mondo di differenza essendo consapevole che non ne fa alcuna” , una frase che sempre di più illumina come un faro il mio percorso, ma soprattutto il mio presente.