Marichi,_a_Rishi_and_son_of_Brahma.

Il saggio Marichy è un personaggio veramente misterioso della mitologia Indiana. Viene citato in molte occasioni nei più importanti testi della tradizione vedica, e almeno in apparenza la sua figura è di primaria importanza.

Figlio di Brahman, nonchè prima emanazione della sua essenza creatrice (il primo dei dieci prajapati), è la “mente” dell’universo, è il primo dei sapta rsi o primi sette veggenti che hanno il compito di custodire la verità e favorire l’insorgere del dharma o giusta vie tra gli esseri umani. Il suo nome significa raggio di luce, è l’essenza del sole di cui è anche mitologicamente “nonno” (padre di Kashyapa e nonno di Surya) e prima delle stelle dell’orsa maggiore una volta disincarnato.

Gli aneddoti su di lui sono pochi nei testi che arrivano a noi, forse anche perchè le tradizioni sono diverse a seconda del periodo e della zona dell’India da cui provengono i racconti tramandati oralmente. In realtà gli aneddoti in cui compare lui o una sua diretta discendenza (o probabilmente avatar come il Maricha del Ramayana) lo ritraggono più come una figura negativa o arcigna. In uno di questi pietrifica la moglie con una maledizione perchè ella si era distratta dal compito di lavargli i piedi dopo una lunga giornata nella foresta perchè era entrato in casa il di lui padre Brahman (forse simboleggiando un’esemplificazione del dharma indipendentemente dall’aspetto eticamente scorretto del suo gesto?). Certo pietrificare la moglie perchè ha osato distrarsi dal lavaggio dei propri piedi non è un comportamento che ci aspetteremmo da un saggio, ma qui abbiamo a che fare con una emanazione semplice, pura che non è ancora avvolta dal dualismo di bene e male e il cui scopo è portare luce sul dharma, sulla giusta via, potrebbe voler dire qualcosa di diverso e la maledizione pietrificante, riferita nell’aneddoto con le connotazione di un incantesimo malvagio frutto di ira, potrebbe essere simbolica di un lento processo di trasformazione di una moglie che contamina la luce pura del suo sentimento verso il marito con i “doveri” sociali e le formalità del vivere in società, sbiadendo i suoi colori e affievolendo la sua lucentezza fino a diventare fredda e dura, insensibile come la pietra. In fondo quante persone diventano così a furia di scambiare la vita come un susseguirsi di doveri?

In un altro (nel racconto Ramayana) viene ricattato dal demone Ravana che lo costringe ad aiutarlo a rapire la moglie di Rama, Sita presentandosi in forma di cervo dorato splendente, raggirando così le vittime del diabolico stratagemma.

In una scrittura Jainista Marichy era figlio di Bharata Chakravatrin, il quale dopo molte rinascite era nato come il ventiquattresimo Tirthankara (semidio che ha il compito di creare un “passaggio” nell’oceano delle rinascite per portare verso la libertà rivelando il dharma o giusta via) del Jainismo, Mahavira (grande uomo).

In questa vita Marichy divenne un monaco Jainista seguace di Rishabhanatha, primo tirthankara, ma incapace di seguire la rigidità del cammino proposto prese una tunica, dei sandali e un ombrello e fondò la sua propria religione prendendo Kapila come primo discepolo (Kapila è il fondatore del Sankhya una delle sei scuole ortodosse della filosofia indiana e diretto predecessore dello yoga che dal Sankhya prende praticamente tutto l’impianto filosofico e l’analisi dell’essere umano aggiungendo ad esso la prospettiva divina e l’abbandono ad essa  come fattore unificante (il sankhya è fondamentalmente dualista mentre lo yoga è per definizione unificazione). In questa vita l’aneddoto più celebre di Marichy ne racconta proprio un fallimento quando venne sedotto dalla prostituta Kama Manjary la quale lo aveva cercato forse per ottenere istruzione da lui o forse fingendo di voler essere istruita ma in realtà avendo già ben chiara l’intenzione di sedurlo per sviarlo dal suo percorso o, secondo il parere di alcuni commentari, per vincere una scommessa fatta con dei compaesani. Marichy finì per divenire succube della prostituta che lo “illuminò” sulle priorità del triplice percorso Dharma , artha, kama (dovere morale, profitto e amore), percorso che si ritrova nella tradizione dello yoga tantrico che non prevede l’ascetismo se non come scelta di rinuncia alla società alla fine della vita dopo aver assolto ai doveri del buon padre (e madre) di famiglia.

Dopo che lo stratagemma di Kama Manjary divenne evidente Marichy si ritirò di nuovo in un ascetismo ancora più austero per rendersi immune da altre fonti di distrazione umane (trama riproposta anche da Visvamitra).

Quello che ci arriva di Marichy non è certo sufficiente per tracciarne un ritratto esaustivo ma forse quello che accomuna i racconti disponibili è il senso di disillusione che deriva dalle delusioni. “Non è tutt’oro quel che luccica” dice il proverbio, un proverbio che più che indicare verso la saggezza ci conduce alla diffidenza (forse per alcune correnti di pensiero assimilata alla saggezza) al sospetto che dietro a qualcosa di bello di splendente ci sia sempre una fregatura che ha, neanche a dirlo, connotazioni materiali e pecuniarie, la perdita del possesso, sia esso materiale o morale (come la reputazione nella società che è tutto sommato una stratificazione appena più sottile di un bene materiale ma posticcia e creata dall’illusione).

Poco tempo fa Tiger Woods era testimonial di una importante società di consulenza internazionale. Lo era perchè era un campione di golf, ma la sua immagine, come spesso succede, veniva presentata come quella di un esemplare umano a 360 gradi. Dopo lo scandalo relativo alla dipendenza dal sesso del campione di Golf, la società ruppe subito la collaborazione trovando  altri testimonal. Lo stesso fatto successe ad un importante politico impegnato nel miglioramento della sostenibilità ecologica delle grandi Nazioni del mondo, successivamente ad uno scandalo di natura sessuale e al conseguente raffreddamento dei rapporti con la moglie, la sua immagine ne venne notevolmente danneggiata, come se questo c’entrasse qualcosa con la sua battaglia ecologica. In qualche modo la nostra società e il nostro pensiero tendono ad assimilare la qualità morale della persona ai suoi successi sociali ed economici, come se ne fossero la naturale conseguenza o come se il personaggio famoso e ricco dovesse pagare tale ricchezza con la perfezione reale o almeno paventata (in fondo siamo nel kali yuga quindi non c’è da meravigliarsi se quattrini e successo siano considerati come indicatori della qualità umana). Quindi se una persona o un personaggio viene sporcato da un pettegolezzo di cronaca rosa, la sua luce si affievolisce, anche se questa in realtà parte da tutt’altro faro, come nei casi citati dello sportivo e del politico.

Perciò con uno sforzo di sintesi simbolica voglio cogliere questo insegnamento da Marichy, il raggio di luce che illumina, che splende e che diventa una stella dell’orsa maggiore, cioè che indipendentemente dal fatto che ciò che luccica sia oro oppure no, la sua qualità è di luccicare e questa è una qualità solo se l’occhio che la percepisce è puro ed innocente. Conservare questa innocenza è molto arduo, ed è una forma di inchino alla realtà per quella che è, che non è perfetta o che lo è come lo sono tutte le cose che troviamo in natura, perfette nella loro imperfezione.

Marichiasana è un cammino verso questa flessibilità che è il contrario rispetto ad essere tutto d’un pezzo, indurito dalle esperienze e dalle delusioni, è un percorso a ritroso nella Jungla dei traumi verso la vera luce, quella dell’accettazione della realtà, della capacità di inchinarsi all’imperfezione nostra e degli altri, e di quello che ci succede, verso la capacità di vedere con gli occhi e la mente degli altri, e di essere flessibili come il giunco.

Tutte le posture che derivano da Marichyasana o che necessitano che questo asana sia consolidato per poter essere studiate, sono per così dire “discendenti” di Marichy sia in senso storico che anatomico come Kashyapasana, Bahiravasana,  Kapilasana, Skandasana, Durvasana